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LA MIA INTRODUZIONE
AL LIBRO DI ROSSI:


FLORENCE, ARIZONA

Il deserto costellato di cactus che ancora resiste all’esplosivo
sviluppo urbano di Phoenix, cambia volto d’improvviso per la
comparsa di un gigantesco massiccio montuoso. Le
Superstition Mountains dividono le villette della più grande
città dell’Arizona dalle riserve degli Apache più a est e con la
loro imponente presenza rappresentano un promemoria
quotidiano, per gli abitanti del posto, di quanto possa
pericolosa la sete di ricchezze dell’uomo.
Intorno al 1870 due tedeschi, Jacob Waltz e Jacob Weiser,
sostennero di aver trovato una leggendaria miniera d’oro su
quelle montagne. I due uomini si presentarono più volte in
un vicino villaggio, Florence, mostrando minuscole pepite d’
oro e raccontando di un ricco giacimento a cui avevano
accesso.
Ben presto i tedeschi presero a litigare sul possesso della
presunta miniera e quando Waltz morì, nel 1890, si dice
avesse sulla coscienza l’uccisione di Weiser e di altri setti
uomini che avevano cercato di scoprire i suoi segreti.
Innumerevoli spedizioni, da allora, partirono da Florence per
cercare il mitico giacimento su quelle che ben presto
cominciarono a venir chiamate le Montagne della
Superstizione. Una trentina di avventurieri non fecero mai
ritorno.
Florence non è mai diventata la capitale di una corsa all’oro,
come sperava. Tagliata fuori dalle grandi vie di
comunicazione sull’asse Phoenix-Tucson, priva di attrazioni
turistiche o di particolari bellezze naturali, con il passare del
tempo la piccola città comprese che per sopravvivere in
mezzo al deserto poteva puntare solo su un business molto
particolare: quello delle prigioni. Svaniti i sogni di raccogliere
facili ricchezze di miniere perdute, venne il momento di
accontentarsi di custodire anime perse di balordi e criminali.
Chi arriva oggi nella cittadina di 5.700 abitanti in mezzo al
niente, viene riempito di eleganti brochure patinate e
colorati depliant realizzati dall’ente del turismo e dalla
camera di commercio locali. Vi si descrivono brillanti
prospettive di sviluppo e opportunità imprenditoriali di ogni
genere per chi sceglie Florence per fare affari. Ma la realtà
che non trova spazio nelle pubblicazioni destinate agli scarsi
turisti che si avventurano da queste parti, è ben diversa:
Florence si regge su un’economia penitenziaria. Lo Stato ha
concentrato qui le proprie prigioni di ogni livello di sicurezza,
trasformandola in una sorta di Alcatraz nel deserto dove i
motel, i ristoranti, i distributori di benzina e quant’altro fanno
affari solo grazie alla continua, triste processione di parenti
e amici di detenuti.
E’ dalla fine dell’800 che l’Arizona custodisce i detenuti a
Florence. Durante la Seconda Guerra Mondiale, vi vennero
realizzati anche campi di detenzione per i prigionieri nemici e
ancora oggi, visitando il McFarland State Historic Museum, si
possono ammirare foto ingiallite di volti siciliani, rosari, vecchi
quaderni, immagini della costiera amalfitana e divise militari
logore: sono le reliquie che ricordano la prigionia dei molti
italiani che trascorsero lunghi mesi, talvolta anni di
detenzione nel deserto.
Dal 1910 a Florence l’Arizona ha anche cominciato a
giustiziare i propri condannati a morte. Una faccenda che un
tempo si sbrigava in fretta, con le impiccagioni (i cappi e le
foto degli impiccati sono una delle maggiori attrazioni in un
altro museo locale, quello della contea di Pinal). Ma nel 1930
la prima donna a venir giustiziata, Eva Dugan, resto
decapitata durante l’impiccagione e l’orrore per l’accaduto
spinse le autorità a passare alla più ‘civile’ sedia elettrica.
Oggi lo Stato ammazza con l’iniezione letale, ma lascia
aperta anche l’opzione della camera a gas.
Le prigioni di Florence sono più o meno accessibili secondo la
pericolosità dei loro ospiti. Il carcere più nascosto e protetto
di tutti è l’Eyman Complex e al suo interno l’unità più isolata
e blindata è la Special Management Unit II (SMU-II), dove
convivono circa 500 detenuti di massima pericolosità e i 128
condannati a morte dell’Arizona.
Nel marzo 2004 sono entrato nella SMU-II per andare a
incontrare, dopo tre anni di scambi di lettere e qualche
complessa telefonata, una di quelle 128 persone in attesa di
essere ammazzate: Richard Rossi, il detenuto numero 50337
del sistema dell’Arizona State Prisons.
A Richie, come vuole essere chiamato dagli amici, sono
arrivato per uno strano giro che passa dalla Virginia, dall’
altra parte degli Stati Uniti.
Una tiepida sera del settembre 2000, un gruppo di giornalisti
italiani tra cui chi scrive, insieme al fotografo Oliviero Toscani,
protagonista delle campagne contro la pena di morte firmate
Benetton, si sono ritrovati in un luogo insolito: il parcheggio
all’esterno del Greensville Correctional Center, a Jarratt, il
luogo dove la Virginia mette a morte i propri dead men
walking. Un posto sperduto in mezzo ai boschi, dove siamo
arrivati in tanti per l’esecuzione di un italoamericano, Derek
Rocco Barnabei.
Avevo intervistato Derek Rocco varie volte nei mesi
precedenti, ho seguito la sua vicenda di condannato che fino
all’ultimo istante si è proclamato innocente dell’omicidio che
gli veniva attribuito e quella sera ero là per raccontare il
triste epilogo di una storia che si ripete nelle camere della
morte di mezza America. Il copione è più o meno sempre
quello: il detenuto disteso sul lettino, gli aghi infilati nel
braccio, una dose di sodio tiopentale che entra nelle vene
per fargli perdere conoscenza, seguita dal bromuro di
pancuronium per paralizzargli i muscoli e infine dal cloruro di
potassio per provocare l’arresto cardiaco. La differenza, per
me, era che stavolta quel detenuto non era solo un numero,
l’ennesima statistica nel macabro conteggio di morti che ha
ormai raggiunto quota 1.000 da quando gli USA hanno
reintrodotto la pena capitale (1976). Era una persona con la
quale avevo scambiato lettere e telefonate, di cui conoscevo
la famiglia e gli amici e che mezz’ora prima di morire,
parlandomi per telefono dalla cella al fianco della camera
della morte, con una voce carica di paura e adrenalina
difficile da dimenticare, mi aveva detto: “Fai in modo che non
si dimentichino di me”.
Nei mesi successivi, pensando a Derek e riflettendo su come
continuare a raccontare la pena di morte dando un volto e
una storia a persone che troppo spesso sono solo fantasmi,
mi sono messo alla ricerca di altri ‘italiani d’America’ nel
braccio della morte. Non che il fatto di avere radici italiane
significhi qualcosa di particolare, nel panorama degli oltre
3.400 uomini e donne che negli USA passano il tempo
aspettando di essere giustiziati. Ogni vita umana che se ne
va per iniezione letale, sedia elettrica, camera a gas o
plotone d’esecuzione (un paio di stati lo prevedono ancora),
ha un valore in sé in quanto tale, non perché porta un
cognome italiano o messicano, una pelle bianca, nera o
quant’altro. Ma raccontare la realtà della pena di morte è un’
impresa che corre sempre il rischio di sfumare nel generico e
di dissolversi nelle statistiche, se non si fanno emergere i
volti, le storie, i cuori umani che battono dietro le sbarre. Il
caso Barnabei, con le folle in piazza in Italia a seguire in
diretta l’esecuzione in Virginia, aveva dimostrato che
inevitabilmente negli italiani scattava un motivo di
attenzione in più nel sapere che si parlava di un figlio di
immigrati delle nostre terre, piuttosto che di un ragazzo
messicano di una gang di Los Angeles.
E’ così che dalle sterminate liste degli ospiti del braccio della
morte, è saltato fuori un ‘signor Rossi’ in attesa del boia in
un posto con un nome che a sua volta richiama l’Italia:
Florence. Ed è attraverso questo insolito itinerario che ho
potuto scoprire il personaggio straordinario che sta dietro le
pagine di questo libro.
Richie è il figlio di Andrew Rossi, emigrato negli Usa da Roma
(dove probabilmente si chiamava Andrea) e della napoletana
Angelina Rossetti. La coppia lo mise al mondo il 30 giugno
1947 a Brooklyn e il piccolo Richard è cresciuto nella vivace
comunità italoamericana locale, prima di trasferirsi a Phoenix,
in Arizona, dove ha commesso l’errore che è costato la vita a
un altro e ha rovinato per sempre anche la sua. La notte del
29 agosto 1983, schiavo degli effetti della cocaina, uccise a
colpi di pistola Harold August durante un litigio legato alla
vendita di una macchina per scrivere. Una vicina di casa di
August fu colpita a sua volta, ma se la cavò. Dopo un
processo nel quale a Rossi fu assegnato un avvocato d’
ufficio incompetente – accade spesso nel sistema giudiziario
americano a chi non ha i soldi per permettersi un legale
adeguato -, arrivò la condanna a morte, decisa da un giudice
tossicodipendente in seguito arrestato con l’accusa di
possesso di marijuana.
Richard Rossi ha sbagliato e non lo nega. Ma si è trovato
chiuso per sempre in un luogo che non ammette la
possibilità che un uomo possa cambiare, neppure dopo più
di 20 anni di cella. Un posto dove non c’è spazio per il
perdono e per una seconda possibilità. L’unico modo in cui lo
stato dell’Arizona vuole che Rossi lasci il carcere di Florence,
è disteso in una cassa di zinco. Dopo avergli tolto tutto, non
solo la vita, ma anche l’eventuale possibilità di donare organi
per salvarne altre: ai condannati a morte è vietato, perché il
veleno dell’esecuzione danneggia in modo irreparabile il
corpo.
Richie, da quel processo celebrato quando ancora alla Casa
Bianca c’era Ronald Reagan, aspetta di morire e riempie il
tempo scrivendo a un gran numero di amici o mettendo su
carta pensieri e analisi sul sistema carcerario, sotto forma di
saggi o di poesie. La raccolta di scritti di questo libro offre
adesso la possibilità a tutti di scoprire la lucidità e l’umanità
delle sue descrizioni su come si vive nella Death Row USA.
''E' giusto che il mondo presti così grande attenzione in
questo periodo a ciò che accade in posti come Guantanamo
– mi ha detto la prima volta che ci siamo finalmente visti -,
ma è anche importante che l’Europa non dimentichi che
quello che stanno facendo là, lo hanno già sperimentato in
questi anni su di noi, i condannati a morte”.
Per 23 ore e mezzo, il mondo di Richie è una tomba di
cemento di 3 metri per 2 metri e 20, senza finestre e con
una porta di metallo traforato che non concede niente alla
privacy. La mezz’ora restante è quella d’aria, in una gabbia
solitaria all’aperto nei 40 gradi dell’Arizona, con l’unica
compagnia di una pallina di gomma da tirare contro il muro,
per fare esercizio. Dal 1997, con l’apertura di unità speciali
come la SMU-II, i detenuti dell’Arizona sono diventati le cavie
di nuovi metodi di detenzione che li vedono costretti a
condividere la stessa struttura dei carcerati in regime di
massima sicurezza. Le tute arancione, le porte blindate
traforate, i servizi igienici aperti in cella, i letti saldati alle
pareti sono in tutto e per tutto gli stessi di Camp Delta, la
famigerata prigione per terroristi a Guantanamo Bay (Cuba).
Per parlare con Richie e gli altri detenuti, nella grande sala
colloqui del carcere, occorre quasi urlare con la bocca
appoggiata a una sottile intercapedine metallica, l’unica
fessura attraverso la quale i suoni possono raggiungere l’
interlocutore, dall’altra parte di un vetro antiproiettile che
separa detenuti e visitatori. Prima di entrare nella sala,
occorre sottoporsi alla lunga trafila dei controlli attraverso
barriere di filo spinato e cemento, dopo essersi assicurati di
aver rispettato tutti gli articoli del regolamento. L’elenco dei
divieti è lungo due pagine e prevede, tra le altre cose, l’
obbligo di non indossare jeans e di lasciar fuori soldi, gioielli,
oggetti metallici di ogni genere, persino carta e penna.
Eppure quando superi le lunghe trafile burocratiche e arrivi
finalmente di fronte a Rossi, trovi un uomo sorridente, che
racconta barzellette e sembra sapere del mondo esterno più
cose di chi vive la quotidianità senza vincoli e sbarre, ma in
modo distratto.
Da tempo Richie ha preso l’abitudine di spedire per posta
alle mie figlie figurine di carta fatte a mano nelle sue lunghe
ore vuote. Sono uccelli, angeli, quasi sempre creature con le
ali.
E’ il suo modo di esprimere la voglia di volare di chi è
costretto dentro una gabbia.

Washington, Dicembre 2005
MARCO BARDAZZI